L’uomo scrive bene. Benissimo. Lo abbiamo
scoperto grazie ad un post dissacrante e commovente, con tanto ritmo,
romanzesco. Iniziava così: “Siamo casalinghe con la barba, pirati senza né
barca né bussola, scarti di una società troppo standardizzata.
Siamo lunatici, strani, sovrappensiero
perennemente, insicuri sulle nostre sicurezze, continuamente in esame con le
nostre certezze e costantemente giudicati dal tribunale del gusto. Siamo tutt’
altra cosa da quella che vi stanno facendo vedere. Vi stanno fregando”. Lo
abbiamo pubblicato per intero, qualcuno se lo ricorderà. Idem per il intervento
successivo, altrettanto spiazzante e frizzante: “In tv vi fanno vedere chef che
urlano, gente che sbatte padelle, altri che insultano e mettono pressione.
Vi fanno vedere gente senza basi che fa piatti
colorati, gente senza cultura che usa prodotti delle grosse multinazionali,
gente senza predisposizione al sacrificio che pensa che un piatto bello e
colorato valga una carriera di riconoscimenti. Tutte cazzate. La cucina è tutt’
altra cosa. E’ una cosa talmente viscerale che rinchiuderla in uno schermo
piatto al plasma o in una scaletta di un programma è quasi offensivo.
La cucina è l’ infanzia di ognuno di noi, la
rincorsa impossibile a quei profumi, a quei sapori, a quei ricordi”. Lo avete
letto per intero, pure questo, sempre qui. Abbiamo ospitato i suoi pensieri in
più di un’occasione e lo faremo anche in futuro, perché ha talento, il dono del
racconto e anche della sintesi. Potrebbe fare lo sceneggiatore, il giornalista,
il blogger, il critico gastronomico: per ora pare che non abbia l’intenzione di
cambiare mestiere, preferendo sfilettare pesce fresco nella cucina del suo
ristorante, L’Officina dei sapori, a Verona. Una destinazione più che un
ristorante, ed è tutto merito suo.
– Partiamo nella più classica maniera possibile,
ovvero dagli inizi. C’era una volta il giovane Fabio Tammaro…
– ….che voleva essere autonomo e viaggiare. Per cui
mi sono avvicinato al mondo della ristorazione, iscrivendomi all’alberghiero di
Vico Equense: agli inizi mi affascinava molto la sala, mi piaceva l’ordine del
servire a tavola. La cucina era una totale sconosciuta, ho iniziato a scoprirla
seguendo i corsi scolastici. Man mano che andavamo avanti mi rendevo conto di
amare la figura del cuoco, il suo ruolo, anche se a quei tempi era tutto così
diverso rispetto ad oggi: c’era gente con dei problemi sociali, niente charme e
tanto sudore, un lavoro per duri e puri. Il destino era comunque tracciato,
diciamo così. A 16 anni sono andato in Olanda, poi in Inghilterra, segue un
periodo in Toscana e poi cinque anni in Danimarca, a Copenhagen. Qui ero
diventato capo partita in un ristorante premiato e molto considerato, Grappolo
Blu: arrivai ad un punto dove o rimanevo e acquistavo delle quote, oppure
tornavo a casa. Mi piaceva molto vivere lì, però non parlavo la lingua e questo
mi sembrava un grosso problema, mi stava frenando, perché avrei avuto delle
difficoltà nel gestire la burocrazia. Una delle possibilità era sposare una
ragazza del posto, così da lasciare a lei le carte e le problematiche da
risolvere, ovviamente molto legate alla conoscenza della lingua. Ho scelto di
tornare in Italia.
– A casa?
– No, a Verona, una città che mi aveva sempre
affascinato e che per la ristorazione rappresentava tanto, il nome di
Perbellini era sulla bocca di tutti. Tramite amicizie sono venuto a sapere che
stavano cercando un cuoco all’Officina dei sapori, locale appena aperto e anche
molto bello.
– Si mangiava pesce pure a quei tempi?
– Si, però era un ristorante senza identità, quello
che trovavi qui lo potevi mangiare anche altrove. Siamo nel 2011, ovvero quel
periodo dove ancora si badava poco ai dettagli, alla gente bastava sapere che
con 100 euro mangiava del buon pesce, senza nemmeno farsi troppe domande. Ora è
tutto cambiato; c’è chi vuole il ristorante specializzato nei crostacei, oppure
quello dove puoi assaggiare le migliori ostriche.
– Tu cosa hai portato?
– La sincerità e la credibilità in cucina, in sala e
in cantina. Il cliente percepiva la mancanza di ricerca, però veniva lo stesso
perché il posto era molto bello. Pian piano ho cambiato tutto, anche la
filosofia del ristorante: ho iniziato a parlare dell’etica del mare e via
dicendo, senza fare il Piero Angela della situazione. Poi mi sono preso anche
il locale, acquistandolo.
– Sei uno molto concreto, questo aiuta quando si fa
il ristoratore.
– Sono cresciuto in fretta. Mi sono reso conto fin da
subito che la cucina fighetta non porta utili e ancor meno stava nelle mie
corde farla. Avevo capito invece che la sincerità pagava, e tanto.
– Quando hai avuto la certezza di aver imboccato la
strada giusta?
– Nel 2012, quando la clientela tornava per mangiare
il pesce crudo. A quei tempi la tartare la facevo con gli scarti, poi ho
iniziato a prepararla con i filetti. Nel 2015 sono arrivato che acquistavo il
pesce quasi per questo, ora ne faccio fuori 180 chili al mese. Nei primi tempi
il crudo rappresentava il cinque per cento della richiesta, ora siamo al
novanta.
– Come possiamo caratterizzare L’Officina dei sapori?
– Sul mio profilo instagram sta scritto “Non il
solito ristorante di pesce”. Per il resto, escluderei di considerarlo un
ristorante cool, non siamo modaioli. Semmai un ristorante moderno, trasversale,
dove proponiamo una cucina tradizionale nell’approccio, però assai innovativa,
dove ogni piatto ha una storia da raccontare.
– Due piatti che “spaccano”.
– Il gran crudo, ovvero i crostacei che il mercato
propone in quel giorno. Dieci, dodici tipi diversi, dal gambero di profondità
fino a quelli viola e rosso. Si aggiungono il dentice, il tonno, oppure altro,
ognuno tagliato e trattato a modo suo. Costa 45 euro, va da matti. Poi lo
spaghettone allo scoglio fujuto e bergamotto. dove fujuto è un termine
napoletano che significa scappato. Il sugo dello spaghetto viene fatto
riducendo di nove decimi un ragù di soli pesci di scoglio, ottenuto da San
Pietro, Scorfano, Gallinella e Tracina.
– Cambi spesso il menù?
– Ogni due, tre mesi: questo creava scompiglio agli
inizi, però nel frattempo stava cambiando anche il mondo. Siamo passati dagli
anni novanta, quando nessuno sapeva chi fosse a cucinare i piatti, ai tempi
nostri dove lo chef è una rockstar.
– Cosa abbiniamo al tuo pesce?
– A Verona trovi sempre le solite carte dei vini, io
ho intrapreso una strada controcorrente, rinunciando alle grandi maison e ai
nomi altisonanti. Ho puntato sulle piccole cantine, il che all’inizio mi ha
penalizzato. Tanti clienti si alzavano e se ne andavano, poi pian piano la
situazione è cambiata. Ora abbiamo diviso i vini in tre livelli: se vuoi
qualcosa per festeggiare ti proponiamo un prodotto prestigioso, se invece vuoi
solo un bicchiere per cenare bene, ti indirizziamo verso dei vini diversi.
Personalmente, agli inizi ignoravo la materia, ora sono un appassionato.
– Quanti coperti hai?
– Quando ho preso le redini del ristorante erano 55,
poi 35, ora sono 28. Ideale sarebbe arrivare ai venti, però è utopia. I grandi
numeri non mi hanno mai affascinato: non siamo il ristorante che aspetta
Vinitaly, San Valentino, oppure il capodanno.
– Scontrino medio?
– Dai 65 ai 85 euro.
– Hai mai pensato alla stella?
– Sono venuti per tre volte, fra l’altro alla fine
del pasto gli ispettori si sono sempre presentati. Nel 2016 siamo stati
inseriti nella guida, ma la stella non è un nostro obiettivo, anche se tanti
clienti ci dicono di meritarcela.
– Ci sono degli chef che apprezzi in maniera
particolare?
– Marcello Trentini, mi piace molto la sua cucina, un
intreccio fra quella sabauda e quella del sud. Gli ho anche dedicato un piatto,
qui da me. Poi Giuseppe Iannotti.
– Dove vai a mangiare, nel giorno libero?
– Quando esco con la famiglia scelgo dei ristoranti
assai semplici, mi basta una buona carne alla brace e delle verdure cucinate
bene. Per una cena sofisticata vado da Perbellini.
– Dove va la ristorazione?
– Verrà premiata la sincerità a tavola. Si torna a
come eravamo: all’oste e al rapporto con il cliente. Per lo meno è quello che
spero e che mi auguro.